Eritrea, lavoro schiavo e finanziamenti europei

Il servizio di leva a tempo indeterminato, cui la popolazione eritrea è costretta da oltre vent’anni dal governo del presidente Isaias Afeworki, è tornato sotto i riflettori per una decisione presa dalla Corte suprema del Canada e per una denuncia della diaspora eritrea alla Commissione europea.

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Proteste degli attivisti davanti alla Corte suprema di Vancouver, in Canada, il giorno della sentenza nei confronti della multinazionale mineraria Nevson Resources (foto: Vancouver Media Co-op)

In Canada la multinazionale mineraria Nevson Resources sarà chiamata a rispondere di schiavitù, lavoro forzato e crimini contro l’umanità per come sono stati, e sono tuttora, gestiti i lavoratori della miniera di Bisha in Eritrea, di cui possiede il 60% delle azioni. Il rimanente 40% è di proprietà della Eritrean national mining corporation (Enamco), formata dal  governo come entità autonoma nel 2006. Dalla miniera di Bisha, operativa dal 2008, vengono estratti oro, argento, zinco e rame. I proventi della vendita di questi metalli sul mercato internazionale sono una delle maggiori entrate del bilancio del paese.

I fatti

La Nevson è stata denunciata nel 2014 da tre rifugiati eritrei che hanno dichiarato di essere stati costretti a lavorare forzatamente nella miniera di Bisha durante il servizio nazionale obbligatorio di leva – durato per loro rispettivamente 17, 14 e 11 anni – a cui erano riusciti a sottrarsi, fuggendo dal paese tra il 2011 e il 2013, e arrivando alla fine in Canada.

Nella denuncia presentata al tribunale della British Columbia, lo stato canadese dove la multinazionale ha sede, i tre hanno raccontato di essere stati costretti a lavorare in turni di 12 ore al giorno per 6 e anche 7 giorni a settimana, sotto il sole e senza protezioni, a temperature che molto spesso superavano i 40 gradi.

La Nevson aveva tentato di fermare il processo, affermando che era stata applicata la legge del paese in cui la miniera si trova. La sentenza della Corte suprema che dà il via libera al procedimento è del 28 febbraio e si basa sul fatto che la denuncia riguarda violazioni dei diritti umani garantiti dal diritto internazionale (Customary international law) che è parte integrante del diritto canadese.

La legislazione sul lavoro eritrea, invece non ne fa parte e non può essere quindi invocata. Secondo diversi opinionisti la sentenza è della massima importanza ed è destinata a fare giurisprudenza nel paese, costringendo le multinazionali canadesi a cambiare il modo di operare, spesso spregiudicato, nelle miniere che possiedono in Africa e altrove.

Si può certamente dire che la posizione sostenuta dalla Nevson, e rigettata dalla Corte suprema, di fatto non è che un modo di mascherare complicità a favore di una notevolissima riduzione del costo del lavoro e del conseguente aumento dei profitti della compagnia.

I finanziamenti europei

Non è così chiaro, invece, cosa spinga la Commissione europea a finanziare con diverse decine di milioni di euro progetti infrastrutturali, ben sapendo che saranno realizzati dal governo con l’utilizzo di persone in servizio nazionale di leva e dunque in condizioni di lavoro forzato e in regime di schiavitù, come affermano diversi rapporti di organizzazioni per la difesa dei diritti umani, come Amnesty International e Human Rights Watch.

Lo stesso parere è stato espresso anche dalla Commissione per i diritti umani dell’Onu che già nel 2016 nominava la riduzione in schiavitù come uno dei crimini contro l’umanità perpetrato dal governo eritreo: “[crimes against] humanity, namely: enslavement, imprisonment, enforced disappearance, torture, other inhumane acts, persecution, rape and murder, have been committed in Eritrea…” ([crimini contro] l’umanità, precisamente: riduzione in schiavitù, carcerazioni, sparizioni forzate, torture, altri atti inumani, persecuzioni, stupri e assassini sono stati commessi in Eritrea…).

Per questo supporto finanziario, la Commissione europea è stata chiamata a rispondere al parlamento il mese scorso, dopo una serie di azioni che comprendono anche una circostanziata lettera che minaccia una denuncia in sede penale, inviata tramite uno studio legale olandese dalla Fondazione per i diritti umani degli eritrei (Foundation human rights for eritreans).

Regolare i flussi o finaziare l’emigrazione?

La Commissione ha infatti approvato l’anno scorso un importo colplessivo di 80 milioni di euro in due fasi per il progetto Reconnecting Eritrea and Ethiopia through the main roads (Ricollegare Eritrea ed Etiopia attraverso le principali strade). Nei documenti del progetto si dichiarano i seguenti obiettivi: facilitare la reintegrazione economica dei due paesi collegando Addis Abeba al porto eritreo di Massawa; fornire lavoro ai giovani in modo da fermare i flussi migratori.

Una parte dello stanziamento grava infatti sui fondi destinati dai paesi europei all’European union emergency trust fund for Africa (Eutf for Africa), il fondo che ha l’obbiettivo, appunto, di regolare i flussi migratori africani verso l’Europa.

Nella sua decisione, la Commissione non ha tenuto conto però del fatto che il processo di pace tra Eritrea ed Etiopia è in stallo, così come la reintegrazione economica tra i due paesi, da quando Asmara, molti mesi fa, ha chiuso le frontiere al traffico commerciale. Inoltre, tutti gli studi in tema di migrazioni dicono che la fuga in massa dei giovani eritrei dal loro paese è causata proprio dal servizio nazionale di leva a tempo indeterminato e dal lavoro forzato conseguente. Di fatto, i finanziamenti europei rinforzano dunque una condizione che a parole dicono di voler contrastare.

Nel rispondere alle numerose questioni sollevate durante l’audizione, tenutasi il 18 febbraio scorso in parlamento, Sandra Kramer, rappresentante della Commissione e responsabile per i rapporti con l’Unione africana e i paesi dell’Africa Occidentale ed Orientale, ha sostenuto che il progetto risponde alle priorità espresse dal governo eritreo.

Ha proseguito osservando che con il finanziamento europeo si sarebbero acquistati macchinari che avrebbero facilitato e reso più sicuro il lavoro. Nessun commento, invece, sulla sostanza della questione: ovvero sul fatto che si sarebbe facilitato il lavoro forzato in condizione di schiavitù e di conseguenza supportato il fattore principale di fuga dei giovani dal paese.  

Tanti altri settori avrebbero bisogno di sostegno in Eritrea. Settori come l’agricoltura, la pesca, l’allevamento, la fornitura di acqua potabile o l’educazione, solo per fare alcuni esempi. Perché finanziare proprio opere in cui viene impiegato massicciamente il lavoro dei giovani in servizio di leva? Su questo, finora, la Commissione non ha avuto risposte convincenti da fornire.